Che fine ha fatto la fantascienza? – Festival del Pensare Contemporaneo, Piacenza 2024
Festival del Pensare Contemporaneo:
vivere la meraviglia, tra stupore e spavento
Qualche riflessione sul panel “Che fine ha fatto la fantascienza?” e la pagina che ho letto all’evento.
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A Piacenza, dal 19 al 23 settembre 2024, si è tenuta la seconda edizione del Festival del Pensare Contemporaneo: un evento complesso, ricco di ospiti e incontri, in cui sono state esplorate moltissime sfumature della cultura davanti a un pubblico attento, entusiasta e foltissimo. La manifestazione si è svolta in varie location, coinvolgendo tutta la città, e svelandone angoli stupendi.


All’interno del Laboratorio Aperto (ospitato presso l’ex Chiesa del Carmine di recente restauro, un luogo sospeso in cui gli affreschi quattrocenteschi “dialogano” con un apparato illuminotecnico avveniristico), si è svolto l’evento dal titolo “Che fine ha fatto la fantascienza?”. Moderati da Federico Bomba, direttore artistico di Sineglossa, quattro ospiti dal background molto diverso si sono confrontati su una possibile visione del futuro: Catalina Curceanu, Primo Ricercatore dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare; Enrico Giovannini, economista ed ex Ministro della Repubblica; Giorgiomaria Cornelio, poeta, regista, curatore e artista; e la sottoscritta, Francesca Cavallero, scrittrice di fantascienza.
Tanti spunti, tanti stimoli, tante prospettive. Mi sono portata a casa un’esperienza intensissima, preziosa, da cui ho imparato molto, anche su me stessa, e in cui ho avuto modo di conoscere e dialogare con persone straordinarie.
Così, ecco qualche riflessione a freddo, dopo le emozioni dell’incontro.
Chi mi conosce sa che la dimensione in cui mi trovo più a mio agio gravita nel silenzio del mio studio, davanti a un computer o a un quaderno e una penna… ma uscire dalla “comfort zone” è sempre importante per la mia crescita come scrittrice (e come persona). In effetti i miei lavori sono piuttosto cupi, legati a una visione del futuro non esattamente ottimista: scrivere storie di riscatto in un’ambientazione oppressiva mi aiuta a immaginare che esista un modo per gettare un sasso nell’ingranaggio di cui tutti (a partire dai miei personaggi) facciamo parte. Ma mi è difficilissimo ignorare quell’ingranaggio, guardare oltre i denti del meccanismo di distruzione che l’umanità sembra così ansiosa di spingere al massimo. Un tritacarne che non risparmia né le persone, né il pianeta, e mi sembra sia sotto gli occhi di tutti.
Eppure, Federico ci ha chiesto di immaginare un futuro diverso, un 2050 migliore per ispirare gli scienziati di domani, e magari non solo quelli. Impresa difficilissima, per me: ci avevo già provato, tempo fa, ma poiché il mio immaginario è così permeabile agli eventi ho desistito. Nella scrittura cerco un rifugio, uno strumento per capire la realtà (distorcendola, scaraventandola in altri tempi o altri mondi, depotenziandola per poterla osservare meglio). A volte è anche un modo per gridare la mia rabbia, e suscitare una forma di risonanza in chi mi legge. Esploro le tenebre perché non mi facciano più paura, e perché ogni scintilla di speranza, per quanto piccola, abbia modo di illuminare la conclusione di ogni storia.
Ma come raccontare un mondo in piena luce? Per svolgere questo complesso esercizio di immaginazione e gettare il cuore (e anche qualche altro organo) oltre l’ostacolo, ho scelto un approccio “in contrasto”. Ho pensato alle mie città-Stato tentacolari e crudeli, alle mie Terre Erose bruciate e afflitte, che nel futuro prossimo o poco-più-in là riflettono tanto dell’orrore di questa povera Terra, e mi sono chiesta: quale sarebbe il contrario di un 2050 che mi sembra sempre più nitido?
Ecco dunque la mia pagina di futuro, che ho letto ad alta voce, circondata da tante persone in silenzio.
Siamo nel 2050, ormai abbiamo invertito la rotta. Ci siamo riusciti per un soffio, e non senza esserci scottati. Ma dopo il grande spavento, la meraviglia: a un certo punto abbiamo avuto la nostra epifania, e abbiamo agito di conseguenza.
Così, oggi vedo l’effervescenza di piccole comunità, immerse nel verde di alberi che non sono stati abbattuti. Vedo villaggi che conoscono la terra, che si prendono cura della biodiversità unendo conoscenze scientifiche e tradizioni autoctone, rifiutando tecnologie intensive, erosive, predatorie.
Vedo modelli sociali aperti, dinamici, in cui i compiti sono distribuiti in base alle inclinazioni, alle forze di ognuno, e collaborazione e complementarietà hanno sostituito concorrenza e sopraffazione. Donne e uomini, libere e liberi di sentirsi chi sono, di amare chi vogliono, contribuiscono in egual misura al benessere della famiglia, alla crescita dei figli, alla cura della comunità intera. Vedo un’istruzione diffusa, profonda, in cui filosofia, etica, arte e materie umanistiche hanno lo stesso valore di scienza e tecnica, perché le seconde, senza le prime, hanno quasi condotto al disastro.
Nel 2050 coltiviamo, produciamo e conserviamo cibo in base al nostro fabbisogno, né più né meno, e la cultura dello scambio è basata sullo stesso meccanismo. Ciò che un tempo consideravamo spazzatura ora rielaboriamo, ricicliamo, riusiamo, riconcepiamo: e se non è possibile cancellare le isole di rifiuti nell’oceano o le montagne delle discariche figlie dell’usa e getta, c’è una comune intesa a non farle crescere. Ma non cresceranno: le industrie sono ormai quasi tutte spente, perché le risorse sono finite. Chi le ha divorate è già su Marte da un po’, nei palazzi avorio che svettano sull’infinito di panorami desertici, forse con la voglia di ricominciare tutto da capo.
O forse no.
Ma qui sulla Terra abbiamo imparato ad aggiustare anziché gettare, a riconcettualizzare gli spazi esistenti anziché cementificare. Le grandi città si sono spopolate, e i grattacieli sono diventati monito e monumento di un passato che non vorremmo tornasse: obelischi di vita intensiva, li guardiamo da lontano, e ricordiamo com’era un’esistenza in apnea.
Adesso che abbiamo ripreso il controllo del tempo, non dobbiamo più vivere negli interstizi delle esigenze imposte dal lavoro, dalle convenzioni sociali, né ci sentiamo schiacciati da un mondo che aspetta solo di franarci addosso attraverso uno schermo qualsiasi. Abbiamo perfino capito che la guerra è un orrendo costo per tutti e un immenso affare per pochi, e abbiamo deciso che non vogliamo vivere perennemente sull’orlo di un baratro.
Comunichiamo su lunghe distanze, certo, ma in momenti dedicati, con energie dedicate, perché non possiamo più permetterci il rumore bianco delle nubi di dati. D’altra parte, molti dei data center hanno preso fuoco nell’ennesimo incendio delle estati estreme: insieme ai nostri profili digitali è bruciata l’illusione che le macchine, nutrite fino a scoppiare perché diventassero più intelligenti di noi, ci avrebbero liberati da ogni responsabilità per ciò che avevamo fatto al pianeta.
Dimenticando di nutrire noi stessi, alla ricerca di un Dio di circuiti abbiamo rischiato di diventare fantasmi vuoti, rifratti in mille filtri, etichette, cibo da algoritmo. Ora usiamo le macchine per quello che sono, e per quello che possono.
Nei blackout abbiamo riscoperto il valore delle relazioni analogiche, del camminare lentamente, dei lunghi viaggi e dei viaggi lunghi, dell’incontro, dell’empatia, del contatto. Il valore di vivere esperienze anziché accumularle, di condividerle fra generazioni e culture, decostruendo i confini, la diffidenza, la rabbia e la paura.
Non è stato facile.
Ma nel 2050 abbiamo ripreso a imparare.
E spegnendo la luce, abbiamo visto le stelle.
Be’, insomma, dallo spavento è nata davvero la meraviglia. Un sogno, magari. E chissà che un giorno non riesca a scrivere davvero qualcosa ambientato in un mondo simile. Oppure rimarrò la solita Cassandra ansiosa di essere smentita, ma con la consapevolezza (e la speranza) che tutti nascondiamo un lato luminoso. Perfino io.
D’altra parte, gli altri ospiti hanno aperto finestre sul futuro in grado di rivelare panorami davvero stimolanti: Catalina Curceanu ha parlato con passione delle possibilità, concesse dalla tecnologia, di effettuare nuove scoperte sul cosmo e sulla cura delle malattie; Enrico Giovannini ha prospettato una visione economica che sappia guardare oltre il PIL e che si rifletta nei valori della sostenibilità; Giorgiomaria Cornelio ha raccontato la sua ispirata visione del tempo, che nell’imprevisto trova nuova linfa, riscrivendo la propria storia fra le crepe del vissuto.
È seguita una discussione molto coinvolgente. A un certo punto mi è stato chiesto come potrebbero essere i generi nel 2050 che vorrei. La domanda mi ha un po’ spiazzata, in parte perché avevo già riassunto il mio punto di vista; in parte perché, in effetti, nei miei lavori non ho mai affrontato direttamente questo tema. Quindi sì, oltre a ribadire ciò che avevo già detto (e cioè che donne e uomini dovrebbero sentirsi libere e liberi di sentirsi chi sono e di amare chi vogliono), ho soltanto cercato di spiegare che, in un 2050 ideale, temi come l’identità di genere non sarebbero affrontati dalla società come un problema, cioè con diffidenza, ostilità e pregiudizio; e che sarebbe bello che l’equilibrio fra i generi fosse raggiunto a ogni livello, al più presto, e recepito nel quotidiano. Magari un po’ prima del 2050! (Lo so, a volte la mia fantasia non si schioda dall’essenziale.)
Altre domande hanno risvegliato alcune delle mie perplessità sul possibile ruolo dell’umano in un mondo popolato da intelligenze artificiali1. Visto che il tempo stringeva, non c’è stato modo di dibattere, ma uso questo spazio come segnalibro mentale: di che cosa ci occuperemo quando le IA lavoreranno e faranno “arte” al posto nostro? Anche tralasciando per un attimo le (fondamentali) questioni inerenti l’occupazione: che succederà quando le IA si occuperanno non solo di ciò che non ci piace, ma anche di ciò che amiamo? Non ci annoieremo da morire? Quando il pubblico sarà assuefatto a una produzione massiva di testi o immagini che graviteranno intorno alla media (in termini di qualità) dei dati con cui le IA vengono addestrate… l’atto artistico di una persona susciterà ancora la nostra meraviglia o ne saremo “spaventati”? Saremo in grado di capire il valore di ciò che “esorbita” dalla norma? Perché l’esigenza di strutturare l’impulso più misterioso e sacro di un essere umano (la creatività) in un atto computazionale e infinitamente replicabile si fonde con la necessità di trasformare l’opera artistica in un prodotto di consumo (da confezionare in fretta, senza troppo studio o pratica)? Non so, probabilmente la mia attitudine per la scrittura di distopie mi suggestiona troppo, ma se da una parte condivido il fascino per i continui progressi della scienza, dall’altra non posso non pensare che tendiamo a inserire in una prospettiva messianica o oracolare ciò che conosciamo poco. Oppure siamo alla disperata ricerca di qualcosa che ci salvi, perché non sappiamo (o vogliamo) farlo da soli. Del resto, alcune scelte (sia quelle necessarie sia quelle che potrebbero essere presentate come tali) si prospettano impopolari, e forse le persone le accetteranno con meno diffidenza se saranno compiute da qualcuno (qualcosa) a cui sono attribuite qualità “superiori”. Senza contare che probabilmente il peso della responsabilità sarebbe percepito in modo diverso… con tutto ciò che ne consegue. Una bella sfida, insomma, ricca di possibilità ma non priva di pericoli. Proprio per questo secondo me urge una cultura diffusa sulle nuove tecnologie, per vederle esattamente per ciò che sono, per comprenderne a pieno rischi e virtù e per non illuderci che con quattro calcoli e il prompt giusto saranno in grado di risolvere tutti i nostri problemi. O colmare le nostre lacune.
Al termine del confronto, Federico Bomba ha svelato i risultati di un’elaborazione in tempo reale svolta dall’IA Gemini, che ha ascoltato la nostra discussione per “estrarre” da essa tre nuove possibili “leggi della robotica”. Un esperimento divertente sul quale, con il tempo agli sgoccioli, non siamo riusciti a discutere (qui sotto, la foto della schermata)… anche perché mi sarebbe piaciuto approfondire come si potrebbe interpretare, in un’ottica non distopica, la terza norma, soprattutto nel passaggio “questa legge […] rifiuta l’idea di una natura pura e incontaminata”… 🙂

Nessun mistero, in realtà: l’IA ha semplicemente fatto un rimpasto delle parole che ci ha sentito proferire, dimostrando di non saper comprendere, o quantomeno di travisare, il significato delle metafore. E siccome l’espressione umana, e soprattutto quella artistica, è fatta di metafore, direi che la singolarità tecnologica – ovvero il momento il cui le IA diventeranno più intelligenti di noi – è ancora piuttosto lontana!
Quindi… in linea con il bellissimo messaggio del Festival, mai smettere di pensare.
Anche quando ci fa paura.
O quando ci sentiamo troppo piccoli davanti ai grandi cambiamenti.


Nota 1. Di perplessità sulle IA ne ho parecchie, lo avrete capito, soprattutto quando vengono definite “a beneficio dell’umanità”: dalle modalità con cui vengono estratte le materie prime che servono per produrre l’hardware, sempre più potente, su cui girano (come accade per ogni device, ovviamente), ai problemi inerenti il loro smaltimento a fine vita; dallo sfruttamento del lavoro (di chi addestra le IA) alla disoccupazione di chi sarà sostituito nelle proprie mansioni (non si tratta di luddismo, ma solo di riflettere sulla necessità e sul problema di una profonda ristrutturazione sociale e professionale); dai rischi di violazione della privacy ai termini di utilizzo etico in settori delicati come quello giudiziario, per non parlare del cosiddetto nudging. Sia chiaro: le mie perplessità non riguardano le tecnologie in sé, bensì come vengono usate, prodotte e vissute.