Essere falena. Il senso di raccontare.

Essere falena. Il senso di raccontare.

Essere falena. Il senso di raccontare.

Un viaggio e una piccola storia dietro “Le dodici ore di Vic”

Il 21 gennaio è uscito un romanzo breve per Delos Digital, nella collana Chew-9 a cura di Lorenzo Fontana e Andrea Tortoreto. Lo trovate qui, se vi interessa. Adesso però vorrei raccontarvi un’altra cosa.

Magari è inusuale svelare i retroscena non richiesti dei propri lavori, ma visto che siamo entrati in un’era in cui si comincia a vaneggiare una possibile “superiorità” delle Intelligenze Artificiali in campo artistico, penso che possa essere utile (e per quanto mi riguarda, importante) spostare l’attenzione su ciò che anima un atto creativo, e che trovo difficile diventi un giorno appannaggio delle IA. Il fatto che questo, in futuro, non sarà più considerato un aspetto apprezzabile o da tutelare è un altro problema, che dovrà essere risolto nel mare di noia e di (aurifera) mediocrità da cui saremo travolti.
Ma per chi legge me, creatura fatta di organi e spirito e una media intelligenza nutrita a ravioli e barbera, ecco dunque la storia dietro la storia, il pezzetto d’anima, magari minuscolo, ma non insignificante, che sta dentro “Le dodici ore di Vic”.

La collana e i temi.

La collana Chew-9 di Delos Digital, creata da Franco Forte, gira intorno ad alcuni temi che mi hanno attratta subito, da quando Andrea Tortoreto mi ha proposto di partecipare. Non solo per il magnifico paradosso rappresentato da una droga “in grado di cambiare la realtà”, ma perché ho affrontato anche altrove argomenti come l’esplorazione spaziale, la colonizzazione, lo sfruttamento di persone e ambiente per impadronirsi di risorse altrui… questioni che mi sembrano tuttora di stretta (e tragica) attualità. E’ qui, però, che si è, per così dire, “innestato” qualcos’altro.
Si dice che nella scrittura creativa sia importante raccontare ciò che si conosce. Nella scrittura di genere, dove immagini mondi lontani o futuri remoti e l’esperienza latita, secondo me è fondamentale raccontare emozioni vere.
Così, devo fare un passo indietro: senza epica, senza retorica, senza nostalgia.


Essere falena.

All’epoca della proposta di Andrea, stavo preparando il mio viaggio nei Balcani.

Chi fa parte della mia generazione ricorderà molto bene le prime “guerre in televisione”, come quella nella ex-Jugoslavia e prima ancora quella nel Golfo, dove per la prima volta l’orrore dei conflitti ci è stato raccontato live, a colori, in ogni telegiornale e in ogni fascia oraria. La guerra non era più “quella cosa vissuta dai nonni”, e tramandata con commozione, sottovoce, accompagnata da sguardi remoti; non era più chiusa nei libri di storia, nelle foto in bianco e nero… che sì, ti turbavano, ma complici i dettagli “bruciati” dalla sovraesposizione, dalla fissità di un mondo bidimensionale e desaturato che potevi ammutolire voltando pagina, non avevano la potenza deflagrante dei video.

Per me, fra l’altro, si trattava di un periodo complesso, perché a causa della fragilità dello stato di salute di mia sorella, mi capitava di affrontare in solitudine la paura di quel mondo violento che premeva dallo schermo, e sembrava potesse travolgere la quiete della provincia in cui sono cresciuta. Combattuta fra emozioni fin troppo adulte (che ero brava a nascondere) e l’onnipotenza infantile che si assume carichi insostenibili per definizione, cominciavo a tracciare la mia grammatica del mondo. Vedevo le immagini a colori di bambini vestiti come me, ma con gli abiti sdruciti, che trascinavano nella polvere gli stessi giocattoli che avevo io, e che riuscivano a giocare in mezzo alle loro case distrutte con gli stessi palloni che rincorrevo con i miei compagni. Eppure avevano perso qualcuno di importante, o sarebbe accaduto. Confondevo la mia paura con la loro, facendo un bel casino: mi sentivo in colpa, perché soffrivo senza una guerra; e in guerra, perché la mia era una sofferenza che non sapevo dove mettere. E ciò che da noi si raccontava di quel conflitto erano favole vuote: “lotte etniche” è l’espressione che più mi colpiva, perché la sentivo ripetere ovunque, ma non la sapeva definire nessuno.

Quella era una guerra che nessuno sembrava spiegarsi: a scuola, al catechismo. Religioni diverse, posti lontani: ci riguardava?
Ma santo cielo: loro, quei bambini in tv, erano come me, come i miei amici. Avevano avuto mamme e papà, fratelli o sorelle, e adesso non li avevano più. Perché?
Ero piena di domande, perché non capivo e avevo paura di capire.
Sentivo e avrei voluto smettere.

Eppure, sfuggendo ai controlli dei miei genitori, ho visto immagini di reportage che non avrei dovuto vedere. Mia sorella veniva ricoverata, e io mi fingevo adulta. Quando adulta lo sono diventata davvero e ho imparato a dare una forma e un senso alle mie emozioni, ho provato il bisogno di visitare quei luoghi, che per uno strano, intimo e contorto gioco di proiezioni ho legato al tempo tumultuoso della mia infanzia, senza esserci mai stata. Così ho preparato il viaggio che aspettavo di fare da molti anni. Una sorta di pellegrinaggio civile.

Sia chiaro: “Le dodici ore di Vic” non è un racconto sulla guerra nei Balcani. Non oserei affrontare in questo modo, e con una preparazione che rimane lacunosa, eventi e tragedie che rimangono troppo grandi e complesse, soprattutto per chi non le ha vissute sulla propria pelle. Ma questo è un racconto sulla difficoltà e la necessità di trovare la luce dentro sé stessi, e in un mondo che sembra sprofondare nel buio un giorno dopo l’altro; un mondo in cui lo stesso orrore si ripete con disinvoltura in una o l’altra area geografica, e in cui pronunciare la parola “pace” è diventato quasi una bestemmia.

Ma vedere la prima casa, il primo palazzo crivellato di proiettili, ancora a distanza di tanti anni, o lo stucco che riempie e non cancella; toccare i bordi ancora aspri dei crateri lasciati dai colpi di mortaio; riempirmi gli occhi con la bellezza degli edifici storici, ricostruiti con infinito amore filologico, e chiacchierare con le persone che abbiamo incontrato, aperte e gentili… tutto questo mi ha provocato un potente “scollamento” percettivo. Ero piena di meraviglia, perché l’orrore non era riuscito a soffocare il fulgore della vita; e di cordoglio, perché in quelle terre il passato cammina con te, e chiede che tu gli tenga la mano, non vuole essere dimenticato.

In quei giorni ho fatto pace con i miei vecchi mostri, e ho imparato a guardare in faccia quelli nuovi: ci sono cose che abbiamo bisogno di vedere, anche se ci fanno male. E ho pensato che la polvere scalzata dalle pareti di una città segnata dalla guerra è una storia che non saremo mai pronti a sentire, ma di cui bisogna prendersi cura. Proprio da questo pensiero è nata Vic, con il difficile potere che trae dalla droga, e che non può controllare: lei sente di dover dare una forma al suo ingombrante senso di colpa (giustificato solo in parte), deve diventare quei detriti esplosi e deve raccontare ciò che è stato, per riportare un equilibrio, e giustizia, alla città che cerca di rialzarsi. Lei deve darsi un senso, e ci riesce, anche se fra mille ostacoli e dubbi, perché è la protagonista di un racconto di fantasia: qui le iperboli o le metafore segnano comunque una strada, e per difficili o controverse che siano le scelte di un personaggio hanno solo conseguenze di carta. Ma (mi sono chiesta e mi chiedo) come è possibile non sentirsi impotenti, se alla base della retorica di guerra il naturale istinto del confronto e della possibilità di identificazione nell’altro viene distorto e sostituito con quello molto più economico (emotivamente) e remunerativo (economicamente) della reificazione? Anche nella realtà, sembra un pensiero (unanimemente) condiviso: non mi somigli, non mi riguardi. Se all’empatia si sostituisce l’alienazione, viene cancellato il senso dell’umano dalla Storia, sprofondandola nel buio. Questo mi terrorizza e lo dico senza imbarazzo.

Ma credo che raccontare sia un modo per attraversare le tenebre, senza chiudere gli occhi. Essere falene, cercare la luce.
Poi certo ci sono la trama, l’avventura, la fantasia, i simboli, i colpi di scena, le descrizioni, la tecnica… la fiction. La pratichiamo dalla notte dei tempi.
Ma la fantascienza, con gli strumenti della metafora e la sua vocazione a sparigliare il reale e ricomporlo in diverse configurazioni, è la miglior mappa che conosco per non perdermi nel buio, e avere la possibilità di cercare un senso. Soprattutto quando la realtà dimentica di averne uno, e noi dimentichiamo di avere un’anima.
Figuriamoci le IA, che non sanno neanche che cosa sia.

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*19.02.2025: ho corretto qualche refuso e sistemato qualche frase, per non essere fraintesa. Il blog è una cosa viva, anche se lo aggiorno senza una regola… mi aiuta a riflettere.